Prosegue il mio viaggio nella dimensione del digitale e delle prospettive che esso porta con sé via via che la nostra vita ne viene sempre più permeata. I nostri ordinamenti giuridici sono pronti a ‘contenere’ l’impatto del digitale? Cosa c’è da fare in relazione ad una corretta gestione della digitalizzazione? E poi: in alcuni campi vedremo una sostituzione integrale dell’uomo con degli algoritmi? Risponde a queste e altre domande Andrea Venanzoni, costituzionalista-Università Roma Tre.
I nostri ordinamenti giuridici sono pronti per gestire e ”contenere” l’impatto del digitale?
”Allo stato attuale la risposta è certamente negativa. L’ossificazione, tanto sostanziale quanto procedurale, rende il nostro sistema piuttosto sclerotizzato, scarsamente proattivo e ancor più scarsamente rispondente alle sfide più rilevanti poste dal digitale, tanto di ordine amministrativo/gestionale quanto costituzionale. Da un lato giganteschi apparati burocratici persi ancora dietro il formalismo burocratico, dall’altro una classe politica e un ceto intellettuale che giocano col digitale come comodo mantra per poi non dire nulla di davvero progettuale: capite che dato questo quadro non c’è moltissimo di cui essere ottimisti. Positivo certamente che le funzioni direttamente connesse allo sviluppo digitale siano incanalate in un Ministero appositamente dedicato, ma non basta: da un lato si rende necessaria una revisione dell’impianto normativo complessivo, meno regolazione più apertura al mercato. Lo Stato deve rimanere sullo sfondo, nella cornice, ed evitare il più possibile di intromettersi perché la regolazione statale, tanto antitrust quanto di ordine costituzionale, finisce per comprimere l’innovazione e per distorcere lo sviluppo del mercato. Perché internet sarà pure originato dal settore militare, traslandosi poi nelle comunicazioni universitarie, ma solo il mercato e l’inventiva umana lo hanno reso grande. Dall’altro lato è necessario, irrinunciabile vorrei dire, modificare l’approccio del ‘fattore umano’: non è possibile che di ‘amministrazione’ del digitale si occupi solo il burocrate. Si deve aprire ai privati e gli stessi funzionari pubblici devono essere selezionati, quando chiamati ad operare sul delicato crinale del digitale, secondo logiche diverse rispetto a quelle del classico concorso pubblico di matrice giuridica”.
Nel suo libro ”Ipotesi neofeudale” parla di eclissi degli Stati nazionali: una prospettiva ineluttabile?
”Elon Musk sta per iniziare a costruire una sua città privata, nel deserto del Texas. Progetti simili stanno prendendo corpo in Arizona. C’è una forma di espansione di logiche tipicamente feudali connaturate alla società digitale: come nel feudalesimo, anche il digitale si basa su tendenze di decentramento funzionale in connessione, per quanto possa suonare paradossale, con una logica iper-centralizzata. Come nel medioevo il contratto di feudo sostituiva ciò che in seguito si sarebbe definita ‘sovranità’, determinando nei fatti una sovranità a base privata, nella società digitale ci sono sistemi di deleghe concentriche che rendono anche le forme istituzionali in apparenza eterarchiche in realtà delle figure assolutamente gerarchizzate. Non si tratta solo di un approccio metaforico-descrittivo ma al contrario è una torsione reale, sostanziale. A ciò si devono aggiungere grande convergenza tecnologica e iper-globalizzazione, processi finanziari sempre più accelerati, regionalizzazione di aree di interesse economico: in questo senso è evidente che lo Stato-nazione risulta una figura vetusta, osboleta e non più rispondente alla sua funzione storica”.
Si ha la sensazione che il cittadino stia assumendo il ruolo del vaso di coccio tra i vasi di ferro…
”Siamo portati a credere che una torsione neofeudale a base privata e proprietaria della società finirebbe per far recedere il cittadino a mero suddito. A me sembra che invece il passaggio sia da cittadino a utente o consumatore, con tutti i diritti connessi. D’altronde si può essere sudditi anche di un sistema apparentemente democratico ma nella sostanza dei fatti oligarchico, in cui i processi decisionali effettivi sono opachi, scarsamente trasparenti, in cui dati, elementi, percorsi di decisione vengono tenuti nascosti. Un anno di pandemia ci ha insegnato come anche la democrazia voglia spesso tornare alla idea di un potere centrale, assoluto. Quindi in certa misura non sarebbero tanto realtà come Amazon a minacciare la libertà individuale quanto, date certe condizioni, gli stessi Stati. E’ necessaria una pacificazione strutturale tra logiche private e logica pubblica statale, altrimenti non ne usciremo bene”.
Sarà un algoritmo a declinare libertà, comunità e proprietà?
”Anche algoritmo come ‘digitale’ è divenuta una parola-mondo che spesso indica tutto e il contrario di tutto. Ci sono algoritmi raffinatissimi utilizzati per profilare e conformare comportamenti, e ci sono poi algoritmi di una rozzezza sconcertante, disfunzionali e problematici, come ci hanno insegnato recenti vicende giudiziarie italiane passate prima per le cure dei TAR e poi del Consiglio di Stato. Anche qui è necessario intendersi su cosa ci si attende dai sistemi algoritmici: la integrale sostituzione dell’umano in molti campi non è possibile né auspicabile. Ma è comunque certo che l’espansione virale di algoritmi determinerà una radicale crisi di interi settori, come la robotica ha già fatto ad esempio nelle linee industriali. E’ ovvio che se un algoritmo può svolgermi alcuni lavori tipici della professione forense, gli avvocati dovranno riaggiornarsi, formarsi e spostare le loro attenzioni professionali: si pongono quindi varie questioni che oscillano dalla necessità di trasparenza nella modellazione dell’algoritmo, ad esempio in tema di immissione dei dati, allo sviluppo di politiche di aggiornamento professionale, formazione, al fine di non diventare ‘proletari delle professioni della conoscenza’, il famigerato cognitariato. In altra misura però ogni algoritmo è frutto e figlio della inventiva umana quindi è esso stesso, in quanto tale, un prodotto della libertà umana, della sua inventiva, e naturalmente della proprietà. Perché la proprietà è alla base della civiltà umana stessa, non possiamo prescinderne. Senza proprietà non vi sarebbe la corsa all’invenzione, la spinta stessa alla innovazione”.