Mi capita spesso di soffermarmi a riflettere sul destino delle cose, dei nostri ricordi. E mi sovviene l’immagine di un deserto digitale. E quando vedo questa immagine nella mia mente mi preme ragionare su come ricorderemo i nostri giorni, le esperienze fatte nel tempo; specie ora che i social sono una parte integrante della nostra esistenza e la loro meccanica permea il significato che diamo alle cose.
Ricordo i ricordi prima dei social, che li potevi toccare. Che non c’era esperienza o avventura scollegata da un profumo o da una sensazione di caldo o freddo, molto spesso senza alcuna immagine fissata nel tempo a farci da bussola. Ora che tutto è immateriale, socializzato, esposto ma perso in una dimensione sempre più pervasiva e straniante, cosa sarà dei nostri ricordi?
Quando i server decideranno di spegnersi, anche i nostri ricordi finiranno in un’obsolescenza programmata? Per poi perdersi nel deserto digitale dove ogni idea è uguale alle altre, perché non c’è orizzonte umano a far da frontiera emotiva alla perdita del tempo.
L’orizzonte del deserto digitale
Un anno e più ormai di pandemia ci ha insegnato che abbiamo un solo ricordo: quando è iniziata. Nonostante i video e le foto pubblicate sui social, le sensazioni contrastanti maturate nei mesi e le videochiamate sempre più sparute, l’unica cosa che ricordiamo è quel momento. Perché è l’ultimo in cui potevamo toccare la realtà.
E allora l’orizzonte digitale che potremmo vivere, da qua a un decennio forse meno, ci deve portare a riflettere sull’abbandono della materialità originaria. Sul costruire rapporti effimeri declinati sui pixel, capaci di affievolirsi alla stessa velocità di un clic.
Una forsennata corsa in circolo
Attonita la mente guarda alla forsennata corsa in circolo della tecnologia, divenuta sempre più pervasiva e totalizzante. Tale da renderci quasi immobili di fronte alla sua ascesa, mentre a noi pare di fare molte cose su un profilo o una pagina social.
Ma in realtà stiamo solo ripetendo gesti meccanici, alla ricerca di un attimo di visibilità nel mare digitale, persi fra mille hashtag da seguire. Fuochi accesi su un cammino sterile, fatto di aria impossibile da afferrare. Ed è dunque qui che si snoda il concetto della solitudine al tempo dei social, nella scelta consapevole di andare verso il deserto digitale oppure rallentare il passo.
Il grande salto
Perché siamo fatti non solo di interazioni effimere ma anche di cose non dette, di carne e sangue, di ossa e sentimenti. Di ricordi e profumi, di immagini scolpite nella mente, il nostro server personale in cui non c’è necessità di approvazione della rete. Siamo di fronte al grande salto, alla corsa ad occhi bendati verso la desertificazione dei ricordi e dei pensieri.
Potrà la dimensione digitale soppiantare totalmente quella tattile, umana? E soprattutto cosa possiamo fare noi per arginare questa corsa? Per tutti niente, per noi qualcosa forse sì. Riagganciare, almeno una volta al giorno il nostro io off-display per riappropriarci del senso delle cose. Di quel sapore unico che solo le cose vive sanno donare a chi le assapora. E ricordarci sempre che la bellezza non chiede mai permesso, fiorisce e basta.
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