Ci avevano promesso che saremmo stati felici, che avremmo pianto solo di gioia, che ogni cosa avrebbe preso la sua direzione. Ma non era così, non era vero. Il grande inganno ci accompagna in maniera costante e silenziosa, senza che nemmeno ce ne accorgiamo più.
Senza nemmeno che proviamo a pensare ad un raggio di luce all’orizzonte. La grande bugia del progresso che porta con sé la felicità, che facilita ogni cosa e che, lui solo, può garantire a tutti di avere quel che meritano. Per quanti anni abbiamo sentito questa litanìa, un mantra che ci cammina accanto da almeno 25 anni e nel quale abbiamo smesso presto di credere.
Perché qualsiasi vita facciamo, qualsiasi scopo perseguiamo, non possiamo dirci mai totalmente appagati. Mai totalmente e completamente felici, soddisfatti; sarà forse per il susseguirsi di stimoli e “obblighi” di perfezione che si susseguono di ora in ora, ci sentiamo perennemente inadeguati.
Siamo esposti ogni minuto ad immagini che esaltano la perfezione. Angolature, tecnologie e filtri non fanno altro che aumentare il divario fra quel che vediamo su un display e ciò che vediamo passando davanti ad uno specchio di casa nostra. Cioè noi stessi. Che siamo il concentrato di esperienze e pensieri ricorrenti, di emotività e preoccupazioni, di felicità e delusioni. Che siamo imperfetti, per natura e conformazione.
Il senso di inadeguatezza, caramella amara della modernità
Ci avevano promesso che saremmo stati felici, ma dietro a quella promessa c’era l’inganno dell’inadeguatezza. Obiettivi sempre più in là, target sempre più alti, standard sempre più complicati da raggiungere (e, ancor peggio, da mantenere), abbiamo perso la meraviglia della semplicità. Del saper essere noi stessi senza giudicarci e senza sentirci sempre profondamente inadeguati. Del resto, chi può dire se dietro ai mille sorrisi social non si nasconda sempre una smorfia?
Chi può dire che chi sorride, oggi, davanti ad un obiettivo è sempre realmente felice? Possiamo ragionevolmente affermare che, nonostante le smentite di rito, la conoscenza di un buon numero di persone lascia propendere per sorrisi molte volte “di circostanza”.
E non perché ci troviamo sempre e necessariamente in mezzo a persone “non vere”, bensì perché viviamo appieno il mondo dello standard a tutti i costi. Del “dover essere”, che si tramuta quasi sempre in uno snervante mostrarsi all’altezza. Questa non è felicità, è ostentazione di mancanza.
La ricerca spasmodica di consenso ad uno status immaginario e, ahimé, profondamente illusorio, tale da costruire una concezione di sé dove gli occhi degli altri (e i like) possono sostituire le nostre consapevolezze. Oggi sempre più incrinate da un vissuto instabile e incerto.
Con i media che ci osservano ad ogni passo per ricordarci che siamo sbagliati, che in quella o quell’altra occasione dovevamo fare o pensare diversamente. E se sbagliamo sul serio, gli unici che non riusciamo mai a perdonare siamo noi stessi.
L’instabilità divoratrice
Sempre appesi ad un filo, in cammino su una corda tesa sapendo cosa lasciamo alle spalle ma mai cosa andremo a trovare all’altra estremità. Siamo instabili come foglie al vento, come frutti maturi che ad un colpo di vento rischiano di cadere dall’albero. E questo sposta il nostro baricentro umano sempre un passo più in là, oggi verso nord e domani verso sud, senza mai trovare un equilibrio.
Siamo letteralmente divorati da una instabilità umana prima che economica e sociale, alla quale ci siamo assuefatti per sopravvivere. Ci avevano promesso che saremmo stati felici, ma non era vero. Ci avevano detto che il futuro era nostro, che grazie alla tecnologia avremmo avuto punti fermi sui quali ruotare un mondo migliore. Ma non era così.
Abbiamo paura, ma anche coraggio
Alla felicità, alla spensieratezza abbiamo sostituito il coraggio. Scelta necessaria in nell’era dell’angoscia globalizzata, dove dietro ad ogni scelta può celarsi un rovescio inaspettato, un qualcosa di così esacerbante e devastante da dover, ogni volta, provare a ricominciare. Siamo forgiati al coraggio dell’inadeguatezza. Del doverci confrontare sempre, del dover sempre rendere conto. Siamo pronti alla sfida, sempre.
Siamo sbagliati, forse. Instabili e incapaci di fare i conti con promesse non mantenute. Le prime fatte a noi stessi. Ma ci avevano promesso che saremmo stati felici, e non era vero. Siamo fiori che spuntano dall’asfalto, tenaci e dolenti.
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